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Secondo giorno della Guerra contro l'Impero Zantredi… Il suo regno stava crollando. Nonostante ciò, intrappolata insieme a lui sotto le macerie del suo palazzo, l’unica cosa che riusciva a pensare era che… non poteva perderlo. Non poteva permettere che Saraqael se ne andasse senza prima aver vissuto insieme a lui quel che entrambi si erano proibiti così a lungo. Con le lacrime che scorrevano incontrollate sulle sue guance, Tarinen, regina degli elfi bianchi di Earendil, si rendeva conto di quanto sciocca fosse stata, di quanto quella stupida etichetta che il suo sangue nobile le aveva cucito addosso l’avesse rovinata. Stringendo tra le dita rovinate per il troppo scavare la mano metallica dell’angelo, non voleva lasciarlo andare via così. «Non morite, Saraqael… vi prego, non morite!» Lui la fissava dritta negli occhi, le palpebre spalancate negli istanti che precedevano la sua dipartita. Erano così dannatamente belle le sue iridi, dello stesso colore dell’oro fuso. Guardandole, Tarinen non si rendeva conto di nient’altro attorno a loro, non delle esplosioni terribili che all’esterno stavano ancora devastando le sue terre, non delle urla di disperazione del suo popolo, non delle vibrazioni orribili dei bombardamenti, ai quali neanche le difese magiche avevano potuto resistere. «M-mi…» rantolò Saraqael. «Non parlate!» singhiozzò Tarinen, china sul suo corpo ricoperto di terribili ustioni, il volto quasi irriconoscibile, se non per quegli occhi, quegli occhi che tanto l’avevano ammirata e guardata con adorazione. Quello sciocco angelo l’aveva protetta dall’esplosione che aveva devastato il palazzo con il suo stesso corpo. Di quelle splendide ali che l’avevano avvolta, facendole da scudo, ora non rimaneva altro che delle piume bruciate e annerite, oltre che il metallo fuso che le agganciava alla sua schiena, mero sostituto delle reali ali, che da tempo gli erano state strappate. Eppure lei le aveva sempre trovate comunque bellissime. Lui parve non averla ascoltata: lentamente, con gran fatica, portò la mano destra, quella che lei non stringeva tra le dita, all’altezza del suo volto, regalandole una carezza rovente, perché il metallo si era surriscaldato per via del fuoco. L’indice tentò di asciugarle le lacrime, ma erano troppe per poter essere spazzate via, troppo copiose per riuscire a fermarsi. Le labbra deformate dell’angelo si dischiusero di nuovo, si mossero a stento, mentre lui esalava l’ultimo respiro, le ultime parole… «Mia… ama… ta… Tarinen…» Tarinen vide la luce abbandonare i suoi occhi in quell’istante, in quel rantolo, in quella frase che avrebbe dovuto sentire molto prima. La mano di Saraqael ricadde a terra, la testa all’indietro. Lei urlò, urlò con quanto fiato avesse nei polmoni, mentre prendeva quel corpo ormai esanime e lo stringeva a sé con tutta la forza che le era rimasta. Il suo bel vestito bianco si tinse del colore del sangue dell’angelo, un viola così scuro da parere nero, come l’oblio in cui lei stava precipitando.
Otto mesi mesi prima… La cosa peggiore che potesse capitargli nella vita. Per uno come lui, che non se ne stava mai fermo, che non rimaneva mai nello stesso luogo troppo a lungo, che si vantava d'essere uno dei migliori esploratori dell'avanguardia del suo Impero, ritrovarsi bloccato su quel pianeta sarebbe equivalso a morire lentamente, non di stenti, ma di tedio. Lì, su quelle terre dove ancora usavano pietra focaia e acciarino per accendere un fuoco, lì dove i giganti al massimo coprivano le loro vergogne con brandelli di pelliccia, lì dove persino la conquista non avrebbe potuto aver alcun sapore, poiché troppo facile, priva del brivido della sfida. Grimar Faris, Ammiraglio della "Wavecrusher" della XIII Flotta Astrale Zantredi, non poteva smettere di fissare la sua preziosa nave astrale ridotta a delle lamiere in fiamme. Gli occhi spalancati a fissare quel fuoco, che come una belva ruggente sembrava essere sfuggito al suo controllo, finalmente libero di divorare tutto ciò che fosse davvero importante per lo Zantredi. I resti della sua ammiraglia bruciavano e venivano dilaniati dalle esplosioni dei condotti, delle componenti elettroniche, dei serbatoi del carburante, delle granate e dei siluri stipati nell’armeria… o quella che un tempo doveva essere tale. Nelle sue iridi rosse quelle fiamme erano riflesse e assumevano le forme di mostri famelici, che con le loro fauci dilaniavano la nave fino a non lasciarne nulla, se non un gelido e inservibile scheletro di metallo. Il fuoco si estese in fretta agli alberi della foresta in cui la sua nave era precipitata. Quando una lingua rovente minacciò d’investirlo, Grimar saltò all’indietro. Le vibrazioni del suo peso su quelle fragili terre scossero gli alberi, che per lui non erano altro che bassi arbusti capaci solo di impicciare i suoi movimenti. Guardandosi attorno, cercò segni di eventuali superstiti, nonostante ricordasse perfettamente di aver dato l’ordine di evacuare. Circondato da quell’insignificante groviglio di minuscoli alberi, che tanto ricordavano le foreste del pianeta natale degli umani, l’ammiraglio mantenne saldo il controllo sulle sue emozioni in subbuglio, inspirando lentamente, nonostante il puzzo dei particolati in sospensione e delle piante in fiamme, e tentando di mettere ordine nei propri pensieri, così da iniziare a escogitare un piano per la propria sopravvivenza e, magari, per far sì che i suoi soldati riuscissero a individuare la sua posizione e recuperarlo.
La regina di Earendil osservò quella cosa senza riuscire a respirare. Non era solo il puzzo del fumo nero che da poco aveva smesso di ergersi, a bloccarle l’aria in gola, ma l’ansia, la paura, l’incredulità, il groviglio indistinto di emozioni che la attanagliavano e che minacciavano di gettarla ancora una volta tra le grinfie di uno dei suoi attacchi di panico. Di fronte ai suoi occhi increduli si stagliava… non sapeva neanche lei cosa fosse quell’accozzaglia nerastra simile allo scheletro di un gigantesco animale. Non assomigliava a nulla che lei avesse mai visto, ma proprio per questo la inquietava, perché era qualcosa fuori dal suo controllo. Tarinen volse lo sguardo verso i suoi consiglieri, i quali però le apparivano persino più sconcertati e terrorizzati di lei di fronte a quella mastodontica cosa. Lasciò scorrere le proprie pupille, frenetiche, sui profili appuntiti e aguzzi di quella che appariva una struttura portante di qualche tipo, forse quell’affare un tempo aveva sostenuto delle mura, ma chi mai avrebbe potuto costruire un palazzo così gigantesco nei territori del suo regno senza che lei ne venisse informata?! Osservò le guardie reali che, circospette, si avvicinavano ai piedi della struttura in cenere, calpestando la pozza d’acqua nera che un tempo doveva essere stata neve, e che si era sciolta a causa delle fiamme fameliche che solo con il supporto di venti negromanti erano riusciti a domare. Soltanto Ser Saraqael rimase vicino a lei, la regina poté percepirne la presenza dalla tensione che emanava. Lo guardò accigliata, preoccupata per quell’oggetto sconosciuto che, a detta dei testimoni, era caduto dal cielo. «E se fosse un messaggio divino? Un avvertimento? Una minaccia?» bisbigliò alla sua guardia del corpo personale, consapevole del suo legame con gli Dei.
Saraqael non riusciva a credere ai propri occhi. Persino dalle terre da cui proveniva lui, non si vedevano cose del genere. Quello che sembrava lo scheletro di una qualche struttura andata in fiamme, aveva delle proporzioni gigantesche, colossali, mastodontiche, e dubitava sinceramente che sarebbe anche solo stato possibile spostarlo di lì. Sicuramente su quelle terre non esistevano le tecnologie per fare una cosa del genere e lui non poteva chiedere aiuto al suo Dio per una cosa del genere, che non rientrava affatto nei suoi doveri di Apostolo. Lanciando uno sguardo di sottecchi alla regina, la osservò, la ammirò, mordendosi il labbro inferiore di nascosto. Era bellissima, come sempre, avvolta in quelle vesti sfarzose e allo stesso tempo semplicemente perfette per lei, in quell’elfico abito bianco, con i pizzi cuciti a mano, le maniche lunghe, che arrivavano a coprirle il dorso delle mani, adornate da motivi di fuori e foglie finemente ricamate da sapienti dita. Così candida in mezzo alla foresta ricoperta di neve, sembrava non solo la regina degli elfi alti di Earendil, ma anche la signora del ghiaccio. Le sue forme sinuose e il suo corpo minuto gli facevano venire voglia di chiuderla in una teca di cristallo, per paura che si rovinasse. Non avrebbe dovuto essere lì, in mezzo al nero fango post-incendio. “E se fosse un messaggio divino? Un avvertimento? Una minaccia?” la sentì bisbigliare. Per gli abitanti del regno di Earendil, quell’ammasso di ferro deforme doveva apparire come un mostro orribile, o come qualcosa di sovrannaturale, di divino, forse un orribile presagio. Saraquael sapeva quanto la sua regina fosse sensibile alle emozioni, quanto fosse ansiosa, quanto odiasse, in fondo in fondo, non avere il controllo della situazione. Per questo non poteva lasciare il suo fianco, per questo non osava avvicinarsi a quella colossale struttura annerita dal fuoco. Scosse la testa, i lunghi capelli ramati smossi a quel gesto: «Non riuscirei a crederci, gli Dei non agiscono così, e poi…» alzò lo sguardo dorato sullo scheletro di metallo. «… questo affare… non è di certo opera di un Dio. Solo mani mortali possono creare un simile abominio.»
Grimar non aveva mai visto quella cosa candida che sembrava ricoprire l’intera foresta. I suoi pesanti passi lasciavano profonde impronte sulla coltre bianca, abbattendo, anche senza volerlo, gruppi di alberi, senza rendersi conto di quanto preziosi essi fossero per gli abitanti del posto, che in essi costruivano le loro dimore e vivevano. Se tentava di raccogliere quella strana sostanza, essa sembrava trasformarsi in acqua purissima e limpida, dato che immediatamente registrò come importante informazione per la propria sopravvivenza. Si era allontanato parecchio dal luogo dello schianto, ma solo dopo aver cercato, sfidando le fiamme, di recuperare quel poco che non era andato in fumo. Era riuscito infatti a portare via con sé delle razioni d’emergenza un po’ bruciacchiate e alcuni contenitori che generalmente servivano per la raccolta di campioni, ma che nel suo caso sarebbe stato ben attento a sfruttare per le emergenze. Dopo alcune ore la sete infatti iniziò a farsi sentire e lui, saggiamente, racchiuse un po’ di quella cosa biancastra in uno dei contenitori, scaldandolo poco dopo con la sua affinità elementare, ottenendo dell’acqua. Data la sua mole, però, quello stratagemma non sarebbe stato utile a lungo. Doveva trovare una fonte d’acqua più vasta e non aveva idea di come fossero fatte quelle terre. Tuttavia, se le piante crescevano così rigogliose, voleva sicuramente dire che da qualche parte c’era un deposito abbondante da cui quelle forme di vita inferiori attingevano. Decise di seguire lo sviluppo degli alberi, notando come questi crescessero in altezza e imponenza man mano che procedeva in una certa direzione. Fu così che si inoltrò in quella che aveva l’aria di essere una foresta gigante. Se ne accorse solo dopo alcuni minuti: un istante prima gli alberi erano solo un fastidioso intralcio alla sua camminata, un attimo dopo era lui ad essere diventato piccolo e insignificante in confronto a loro. Inquietato da quella sensazione poco familiare d’inferiorità, iniziò a muoversi con circospezione. I suoi sensi erano tesi come non mai, mentre procedeva su quelle terre sconosciute. Non poteva sapere quali tipi di creature fossero in agguato tra quei tronchi e quei rami imponenti. Avrebbe potuto essere aggradito da una bestia simile a un A’cat da un momento all’altro, se non avesse tenuto la guardia alta. Mai si sarebbe aspettato che ad attaccarlo fossero degli schifosi Miclon.
Quel che i cacciatori di Earendil avevano catturato non poteva essere definito un Gigante o un Ciclope. Tarinen, se proprio avesse dovuto azzardare, avrebbe pensato di star osservando un Titano, ma neanche di questo sarebbe potuta essere davvero sicura. Di fronte a lei si stagliava l’imponente figura di un essere colossale, dalle sembianze di un umano decisamente fuori scala. Era costretto dalle catene di luce magiche in una posizione contratta, i polpacci legati contro le cosce, le ginocchia piegate, i talloni a premere contro i glutei, la schiena curvata innaturalmente in modo ch’egli aderisse con il petto alle ginocchia, le braccia bloccate dietro la schiena. Anche ripiegato su sé stesso a quel modo, incombeva sulla sua minuta e fragile figura, come una colossale e terrificante belva digrignava i denti e la fissava con quegli occhi rossi come il sangue, furioso per essere stato braccato e immobilizzato. Il cuore della regina batteva così forte per il timore che era certa sarebbe potuta collassare da un momento all’altro, il panico già risaliva nei suoi polmoni, facendola ansimare. Una mano gentile le strinse la spalla e lei trasalì, voltandosi di scatto. Saraqael la fissava comprensivo, con le sue iridi d’oro liquido che le trasmettevano sicurezza e fermezza. Grazie a lui, lei inspirò profondamente, riprendendo il controllo del diaframma, poi inchiodò lo sguardo a quello del colosso. «Chi sei?» gli chiese, tentando di apparire imperiosa. Un istante dopo, l’essere tentò di strattonare le catene, facendo sussultare i cacciatori e le guardie che, collaborando, erano riusciti a portarlo fino a lì, fin nell’angolo più appartato e sicuro di Earendil, nelle nere grotte dove venivano rinchiusi i nemici della patria e le minacce troppo grandi per essere affrontate a viso aperto. Nonostante il tentativo di divincolarsi del gigante, le catene magiche ressero bene, tintinnando sonoramente, ma senza cedere alla sua forza sicuramente spropositata. «Rispondi» riprovò, per quanto la voce le tremasse appena di paura. «Vi schiaccerò tutti, miserevoli Miclon!» ringhiò il colosso, e la sua voce risuonò per tutta la grotta, facendo trasalire i poveri elfi, lei compresa. Tarinen dovette congiungere le mani sul grembo, altrimenti sicuramente il loro tremore si sarebbe notato subito, e lei non poteva proprio permettersi di apparire debole di fronte a quell’essere, al quale sarebbe bastato calpestarla per ucciderla. Dentro, si rendeva conto di non avere alcuna autorità su un simile colosso, lui costituiva una reale minaccia all’incolumità del suo intero regno, il loro unico vantaggio sembrava essere il fatto che questi non fosse minimamente portato per la magia, altrimenti sicuramente avrebbe saputo come annientare un incanto semplice come quello delle catene di luce. «Sei tu ad aver portato qui lo scheletro nero?» provò a cambiare domanda. «Da dove vieni? Perché sei qui?» insistette, non ottenendo risposta. «Ce ne sono altri come te?» Non c’era nulla, in quel momento, che le premesse più dell’incolumità del suo popolo.
Saraqael percepiva il pericolo fin dentro le ossa, fin nei circuiti cibernetici delle braccia, delle gambe e delle ali. Fissando quell’essere colossale provava l’irresistibile impulso di prendere la sua regina per i fianchi e portarla via di peso, contro qualsiasi protesta od ordine, issandosela sulle spalle come un sacco di patate se necessario. Però sapeva che Tarinen non glielo avrebbe mai perdonato e lui non poteva permettersi il suo risentimento. Non perché temesse di perdere il suo ruolo di guardia del corpo, quanto piuttosto perché non avrebbe potuto sopportare l’idea di non sapere cosa accadesse attorno all’elfa. «Lasciateci soli.» Quell’ordine arrivò alle sue orecchie ovattato e distante, per quanto era concentrato sul gigantoide. La vista delle guardie e dei cacciatori che lentamente sgombravano l’area lo colse quasi impreparato, quasi come se d’un tratto fosse stato catapultato in una orribile situazione e non ne capisse il motivo. Con occhi frenetici li guardò, li seguì nella loro ritirata, senza riuscire a concepire un simile gesto, senza poterlo neanche minimamente prendere in considerazione. «Dove state andando?!» ringhiò nella loro direzione. «Anche voi, Saraqael.» L’angelo la fissò allibito, incredulo, scioccato: «Non posso lasciarvi da sola con questo…!» quadrò il colosso, senza riuscire a trovare la parola adatta per definirlo. «Questo… questo essere!» Lei gli sorrise dolcemente, ma quel gesto fu come una pugnalata dritta al ventre: «Non costringetemi a ordinarvelo seriamente.» L’angelo scosse appena la testa, ancora incapace di accettare simili parole. La regina non aveva mai usato il suo potere imperiale sui suoi sudditi, era troppo gentile per fare una cosa del genere, troppo buona per privare gli altri della loro volontà, troppo pura e onesta per sfruttare l’Imperio persino sui suoi nemici, che avrebbe potuto così facilmente sbaragliare. Eppure era disposta a utilizzarlo su di lui, una cosa che feriva profondamente Saraqael, che per lei nutriva molto più che semplice fedeltà.
Quella minuscola e insignificante Miclon era rimasta da sola al suo cospetto, forte unicamente di quelle catene che gli impedivano di muoversi. Se solo avesse potuto, Grimar avrebbe sicuramente distrutto quel microbo con un solo calcio ben assestato, eppure si trovava inerme di fronte a lei. Non riusciva a capacitarsi di quanto accaduto nella foresta, non voleva né poteva accettare di essere stato sopraffatto da quelle misere creature. Aveva sempre pensato, come tutti i suoi simili, che ci fosse assai da diffidare di chi usava la magia: ora ne aveva la conferma. Quale assurda arte oscura poteva piegare uno Zantredi grande, grosso, fiero e possente come lui in una posizione di simile resa? La sola idea di trovarsi costretto in quel modo gli rendeva davvero difficile controllare la propria ira. Con dei forti strattoni tentò di nuovo di distruggere quelle assurde catene magiche, fallendo miseramente. «Hai del fegato, schifosa Miclon, devo ammetterlo» ringhiò a denti stretti. Quella microba era infatti stata l’unica a non sussultare né indietreggiare, quando aveva ringhiato e preteso di essere rilasciato, e persino in quel momento, sola di fronte a lui, non faceva una piega, non era trasalita né aveva indietreggiato davanti al suo ennesimo tentativo di sbarazzarsi di quell’orribile costrizione. Lei alzò il mento di scatto, con fierezza, un atteggiamento che non sarebbe dovuto appartenere a un’esserucolo così piccolo e insignificante, ma che stranamente, nonostante la situazione, lo divertiva. «Non mi chiamo Miclon né schifosa» la sentì puntualizzare, con quella vocina piccola piccola che faceva fatica a percepire. «Io sono Tarinen, regina degli elfi bianchi di Earendil, sovrana della foresta e delle acque di queste terre.» Un titolo altisonante che le avrebbe facilmente strappato quando fosse stato libero di muoversi. «Invece, tu sarai “energumeno” o “mostro”. Oppure puoi decidere di dirmi il tuo nome.»
Il colosso digrignò i denti e tentò di nuovo di forzare le catene. La paura era tale che le sembrava di poter svenire da un momento all’altro. Solamente il pensiero di dover proteggere il suo popolo la teneva ancora in piedi, ferma, immobile per il terrore, il respiro lento non per la calma, ma per il timore che, se quell’essere l’avesse sentito accelerato, questo avrebbe potuto aizzarlo contro di lei. Gli occhi erano fissi in quelli rossi del gigantoide non per fermezza, ma perché non riusciva a distoglierli senza che ondate d’ansia la assalissero. Ma questo lui ovviamente non poteva saperlo ed era forse la sua unica difesa in quel momento. «Come osi? Io sono Grimar Faris, Ammiraglio della XIII Flotta Astrale Zantredi, il più intelligente, forte e…» Il lieve sorriso nervoso che affiorò sulle labbra di Tarinen lo mise a tacere e gli fece stringere le palpebre. Quello sguardo assottigliato puntato su di lei le avrebbe strappato una risatina, se non fosse stata così tesa e impaurita. Le pareva di poter vedere le rotelline del suo cervello muoversi e trarre la loro conclusione da sole. Alla fine il colosso sbuffò, investendola con il suo alito caldo, scompigliandole i capelli e il vestito, e tentò di raddrizzare la schiena, inutilmente date le catene. «Hai ottenuto quello che volevi, Miclon, ma non credere di…» «Tarinen» lo corresse lei. Lui rimase in silenzio alcuni istanti: «Non credere di potermi tenere così per sempre» concluse. La regina scosse lievemente la testa: non avrebbe mai voluto imprigionare nessuno, neanche un essere terrificante come quello, in una grotta nuda e spoglia e legato dalle catene magiche in quel modo. Tuttavia i cacciatori si erano visti costretti a bloccarlo così, evidentemente perché altrimenti lui avrebbe potuto attaccargli lo stesso, se non addirittura liberarsi. Lo osservò attentamente, scrutando il suo corpo possente ricoperto di quella strana e scintillante armatura d’oro, annerita in diversi punti, come se si fosse gettato tra le fiamme di un incendio. Lasciò che gli occhi risalissero sul volto, notando come non avesse nulla di grottesco come un comune Gigante, avrebbe detto si trattasse di un Titano, ma persino per loro quell’uomo era un colosso. Il viso dai lineamenti cesellati e virili, non era affatto brutto, anzi, possedeva una strana beltà, esotica, specialmente considerati quelle iridi rosse e i capelli color dell’oro. L’espressione, tuttavia, aveva un che di austero e freddo, come se tenesse rinchiuse le sue emozioni, o per lo meno tentasse di farlo. L’orgoglio che traspariva dal suo sguardo le diceva che non sarebbe stato facile ottenere le informazioni che le servivano per proteggere il suo popolo. «Se risponderai alle mie domande, ti libererò.»
Saraqael aveva camminato avanti e indietro di fronte all’entrata della grotta così tante volte da aver lasciato i segni del proprio passaggio sul terreno. Si era passato le mani tra i capelli abbastanza spesso da assumere l’aspetto di un selvaggio. Le guardie di cui era il capo lo fissavano come se fosse una belva nervosa pronta a scattare, ma allo stesso tempo con comprensione, perché molti di loro sospettavano da tempo cosa lo legasse alla regina die Earendil. Altrimenti perché mai sarebbe rimasto, dopo aver completato l’incarico affidatogli dal suo Dio? Erano trascorsi anni da quando Alexander gli aveva ordinato di proteggere Tarinen durante la guerra contro gli elfi neri, ormai dominava la pace nel regno, eppure lui era ancora lì. Smise di solcare il terreno quando delle vibrazioni inquietanti lo fecero tremare. Bloccandosi e voltandosi di scatto verso l’entrata della grotta, dispiegò le ali meccaniche, pronto a spiccare il volo ed entrare non appena avesse percepito un qualsiasi segno del fatto che la sua regina fosse in pericolo. Tuttavia ciò che uscì da quell’antro oscuro non furono le grida di terrore di Tarinen, ma la sua figura, così elegante, così bella e immacolata… con al seguito il colosso d’oro. Lui e le sue guardie sobbalzarono all’indietro, portando prontamente le mani alle armi, ma furono bloccati dal cenno dell’elfa bianca. «Non temete, miei fedeli cavalieri. Ser Grimar non ha intenzioni ostili.» Saraqael alzò lo sguardo sul volto di quell’essere gigantesco, incredulo di fronte alle parole della donna. Quell’affare avrebbe potuto facilmente schiacciarli tutti con uno solo dei suoi piedi, eppure lei era tranquillissima in sua vicinanza. Non poteva credere a una cosa del genere e il suo istinto gli urlava in ogni modo di volare fino a lei, prenderla e portarla il più lontano possibile da quella minaccia bipede. «A quanto pare, Ser Grimar è l’esponente di una razza che vive lassù, oltre la volta celeste» spiegò sommariamente Tarinen. «Lì hanno navi enormi in grado di trasportarli, ma la sua è stata brutalmente attaccata dall’Impero, precipitando qui in fiamme. Sarà nostro ospite per qualche tempo.» Bisbigli di meraviglia e stupore percorsero le guardine, ma Saraqael non disse nulla, non fece nulla, rimase solamente a fissare la sua regina in faccia, scrutando attentamente quegli occhi che aveva imparato a leggere e amare. E in quello sguardo vide che lei non era del tutto sincera, che qualcosa la turbava, la spaventava, e non aveva assolutamente nulla a che fare con l’avere quel colosso alle proprie spalle.
Tarinen oltrepassò la soglia della porta delle su stanze private cercando di mantenere quella parvenza di calma fino alla fine. Dietro di lei, solo Saraqael era rimasto, dopo aver ordinato alle guardie di tenere d’occhio Ser Grimar, al quale ancora doveva essere fornito un luogo dove dormire in comodità. Forse proprio perché non vista da nessun altri che lui, la regina infine si lasciò andare. Le gambe tremanti le cedettero, lei stava per crollare riversa a terra, ma ecco che le braccia forti e di gelido metallo dell’angelo la sorressero, afferrandola una per la vita, l’altra sotto l’ascella. «Mia regina…» sussurrò lui. «Non avreste dovuto esporvi in quel modo.» Lei scosse la testa: «No, no… Saraqael, solo così potevo ottenere le informazioni per proteggere il mio popolo.» Lui la accompagnò fino al letto, con la sua solita delicatezza la fece sedere e poi, inginocchiandosi di fronte a lei, con le ali piegate sulla schiena, iniziò a slacciarle gli stivaletti elfici. Tarinen lo fissò, consapevole di cosa si agitasse nel suo cuore. Sapeva dei suoi sentimenti per lei da anni ormai, da quando, finito il lavoro che gli aveva affidato il suo Dio, l’angelo aveva comunque continuato a rimanere al suo fianco. I primi tempi si era odiata, perché, nonostante non potesse ricambiarlo, aveva lasciato che lui seguitasse a servirla, che la amasse a modo suo, con quell’insita timidezza che gli aveva sempre impedito di confessarsi apertamente. «I maghi del regno devono essere chiamati a raccolta» mormorò esausta, fissando quelle dita cibernetiche che lacciavano il secondo stivaletto. «Perché?» le chiese lui, nonostante il suo non alzare gli occhi le suggerisse che già conosceva la risposta. «Quel colosso… non è solo. È membro di una flotta, anche se non lo ha detto apertamente. Sicuramente l’Imperatore Almand Virand ha attaccato la sua nave per questo: Ser Grimar fa parte di una forza d’invasione. Se non lo avessi liberato, saremmo finiti invischiati nel conflitto, tuttavia… se davvero Ser Grimar proviene dalle stelle, dobbiamo comunque prepararci al peggio.» Saraqael le sfilò il secondo stivaletto con delicatezza. Lei ignorò deliberatamente la sensazione del tocco delle sue mani metalliche sul polpaccio e sulla caviglia, ignorò il brivido che le percorse la schiena, ignorò il fatto che gli stava concedendo il sublime piacere di un contatto, per quanto si fosse sempre domandata come lui potesse percepirlo con quelle strane protesi. L’angelo le aveva raccontato come avesse perso gli arti e le ali, come gli umani che lui e la sua gente avevano curato fossero tornati con un esercito e avessero massacrato tutti, compresa la donna che amava allora. Scrutandolo, non poteva fare a meno di chiedersi quanto potesse toccarlo la faccenda di Ser Grimar.
Non avrebbe permesso che accadesse di nuovo. Avrebbe preferito morire piuttosto che perdere la sua regina.
Sette mesi dopo quei fatti, un mese prima dell'inizio della Guerra… «Ottimo lavoro, Ammiraglio Faris.» Grimar avrebbe voluto spaccare la faccia al Grandammiraglio Supremo per averlo definito semplicemente Ammiraglio e aver ignorato i suoi vari titoli nobiliari, ma riuscì a mantener salda la presa sulle sue emozioni soffocandole come si confaceva a un Zantredi del suo calibro. Chino nella riverenza militare, osservava l’oloproiezione del capo dell’intera flotta dell’Impero con un misto d’invidia e malignità. Un giorno, presto, sarebbe stato lui al suo posto, chissà, magari quel fetente sarebbe morto proprio nell’imminente battaglia. «So che avete perso la vostra ammiraglia nella missione di ricognizione…» fece annoiato il Grandammiraglio. «Immagino sia stato un terribile dolore per voi.» «Avevo tenuto da conto che sarebbe potuto accadere.» «Vero, nei registri si accenna a una simile possibilità, oltre che alla vostra missione secondaria… avete raccolto davvero molte informazioni sui nemici negli ultimi sette mesi. Squallidi Miclons che credono ancora negli Dei… e questa questione della magia, poi… inconcepibile. Il livello tecnologico, però, e la distribuzione delle ricchezze, è davvero una caratteristica unica nel suo genere.» Grimar annuì: «Sì, il pianeta è ripartito tra sei nazioni, ma le uniche davvero pericolose per noi sono la Federazione e l’Impero, uno di questi due ha sicuramente abbattuto la Wavecrusher.» «Allora sarete voi a capitanare l’assalto contro quelle terre.» Grimar sogghignò: «Ve ne sono grato.» «Anzi, comanderete l’intera operazione.» A quelle parole, il colosso vestito dell’armatura dorata sbatté le palpebre. Questo avrebbe voluto dire che avrebbe dovuto gestire l’intero attacco, che avrebbe avuto pieno controllo sulle sorti del pianeta nemico, che anche il regno della regina Tarinen sarebbe stato sotto il mirino dei cannoni della sua nave. «Credete di potercela fare? Sette mesi su quel pianeta…» «Qualsiasi cosa…» sussurrò Grimar. «Ammiraglio Faris?» «Qualsiasi cosa…» ripeté alzando la voce. «Qualsiasi cosa, per amore dell’Impero.»
Edited by Sorte (Master) - 17/2/2020, 11:51
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